Le relazioni di cura sono tra le più complesse e delicate. La voce nelle professioni di cura fa parte dell’aspetto relazionale e comunicativo che, nella maggior parte dei casi, è un lato che non viene “curato”. Di una cattiva relazione di cura o relazione di cura malata in realtà risentono sia i pazienti sia gli stessi sanitari. È il grande tema del mettersi in gioco come essere umano, il viaggio della vita: trovare la propria voce.
Nicole Smith si occupa di relazione di cura ovvero del rapporto tra i professionisti sanitari e i pazienti.
Ha creato il progetto Anche Umani rivolto ai curanti.
https://www.instagram.com/anche_umani/
https://www.youtube.com/channel/UC0Su_sKpnzlBSyJj4FDaDgw
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Anche oggi, come da qualche puntata a questa parte, non siamo soli ma abbiamo un’ospite con una storia straordinaria, che sta portando avanti un tema di un’importanza eccezionale e lo sarà sempre di più: Nicole Smith di Anche Umani
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L’importanza della relazione è una delle chiavi fondamentali del nostro podcast e oggi parliamo di voce, di comunicazione, di relazione nelle professioni di cura.
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Come nasce Anche Umani?
Anche Umani nasce da un’esperienza personale di Nicole che nel 2016 si ritrova nei panni di paziente a causa di un grave incidente stradale.
In quell’anno si sta per laureare in scienze della comunicazione, anche se cerca di dare al suo percorso di studi un taglio più incentrato sulla comunicazione nelle relazioni interpersonali.
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Durante quei lunghi mesi, nei vari reparti ospedalieri, Nicole deve necessariamente affidarsi e fidarsi dei professionisti sanitari, dai medici agli infermieri e agli operatori sociosanitari che vede tutti i giorni. Da lì inizia a osservare l’aspetto relazionale e comunicativo e si rende conto di come purtroppo nella maggior parte dei casi non sia un aspetto che viene “curato”. Comincia quindi una sorta di ricerca sul campo studiando la tematica della relazione di cura e della comunicazione in sanità.
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Com’è la situazione comunicativa in ambito sanitario? Che cosa emerge da questa esperienza?
Emerge che «manca completamente la preparazione dal punto di vista comunicativo». Ai medici o agli infermieri con cui Nicole instaura una migliore relazione domanda se abbiano mai fatto dei corsi di comunicazione con il paziente. Tutti rispondono “assolutamente no”, ad esclusione di seminari spesso facoltativi di due ore una tantum.
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Iniziando a collegare i pezzi, appare chiaro il motivo per cui nella pratica professionale effettivamente non si hanno competenze comunicative.
Al di là della critica in cui è facile cadere, giudicando gli altri cinici o maleducati, Nicole sa cambiare prospettiva e mettersi nei loro panni, chiedendosi quindi come riescano a gestire le situazioni toste che vedono ogni giorno, come tornino a casa a livello emotivo e psicologico e soprattutto come gestiscano emotivamente tutto questo carico, se ne siano consapevoli e poi come si rifletta tutto questo nella relazione con i pazienti.
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«Dalla ricerca emerge che non c’è uno spazio dedicato ai sanitari per confrontarsi tra di loro su come stanno emotivamente e quindi di questa cattiva relazione di cura o relazione di cura malata in realtà risentono sia i pazienti ma anche gli stessi sanitari».
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Una volta ripresasi, Nicole decide di preparare la tesi proprio su questo argomento, basandosi sulla sua esperienza e sui vari studi condotti da anni.
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Nel frattempo, Nicole e il suo compagno, che si occupa di produzione video, decidono di fare un documentario, la cui ricerca del materiale va avanti per tre anni. Il documentario si intitola “Quel qualcosa in più” e dura circa un’ora.
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«La relazione di cura è talmente delicata perché a che fare con quelle macrocategorie – la vita, la morte, la sofferenza, il dolore, la vulnerabilità – che come società cerchiamo di rifiutare in tutti i modi mentre lì, in ospedale, si vivono tutti i giorni.»
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Dal 2016 a oggi c’è stato qualche cambiamento?
«Qualche piccolo spiraglio c’è, da sempre, ma rimane un piccolo spiraglio.»
Nicole non è la prima che parla di questi argomenti; sono stati fatti studi in vari campi, già dagli anni ‘70 ci sono tantissime ricerche. «Purtroppo, però, lo studio non viene tradotto in pratica sia a livello formativo sia a livello professionale quindi è come se rimanesse un bello studio, un discorso puramente teorico: si sa che l’empatia è importante nella cura, ma non c’è un investimento importante su questo lato.»
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«Nella sanità è tutto meramente tecnico: sono stati fatti dei progressi enormi scientifici ma la cura non è tutta lì e se ci dimentichiamo della parte umana stiamo solo che indietreggiando.»
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È come se l’interesse per approfondire certi temi riguardasse solo chi usa la parola, tutto il settore psicoterapia, senza considerare che invece un medico non cura – non dovrebbe curare – solo il corpo.
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«Purtroppo, ancora oggi, ci sono medici che non credono negli psicologi o nella psicologia, ma è follia prettamente da un punto di vista scientifico.»
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«Tutto ciò che va oltre il visibile, che sfugge dal microscopio, è qualcosa che non esiste.»
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La cosa paradossale è che non è neanche l’efficacia il driver che porta a un miglioramento, perché se fosse l’efficacia uno dei parametri considerati per confrontarsi tra medici e psicologi le cose cambierebbero e di tanto.
Se un medico adottasse un certo tipo di approccio, probabilmente il paziente seguirebbe la terapia molto più facilmente e molto più precisamente; perché non dovrebbe farlo?
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«I medici parlano molto spesso del problema di compliance, cioè di adesione alle terapie prescritte, e lamentano che il paziente non ascolta; ma la domanda da fare al medico è: “ma tu lo ascolti?”. Perché questo esula dalla relazione di cura, vale in qualsiasi relazione: voi ascoltereste una persona che non vi ascolta?»
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«Ci sono molti studi sul burnout, il logoramento professionale, e gli stessi curanti soffrono di stress e malessere che va verso la de-personalizzazione…»
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«… il che è paradossale: se stiamo parlando di relazioni umane e togliamo la parte umana che sono anche le emozioni, stiamo parlando di qualcos’altro.»
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Il non mettersi in gioco personalmente è estremamente più comodo rispetto all’applicazione di un semplice protocollo asettico, perché la relazione implica che io sia parte in causa, in pieno, del processo, come lo è l’altro, e non è così semplice.
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«Questo è il punto centrale della situazione. È il grande tema del mettersi in gioco come essere umano, quando ci si toglie il camice, la divisa, ci si toglie dal ruolo, rimane la persona come essere umano ed è la cosa più difficile per tutti noi. È lì il viaggio della vita, il viaggio che ci viene richiesto: trovare la propria voce, la propria voce interiore, che sia quella dell’umano, che arriva molto prima e che poi è il terreno sul quale si costruisce il proprio essere medico o quello che ognuno sceglie di fare nella vita.»
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Il titolo è proprio giusto, Anche Umani: siamo anche umani, dovremmo essere “soprattutto umani”, alcuni tendono un po’ a dimenticarsi di essere umani.
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In quasi tutte le interviste che Nicole ha fatto, a oncologi o primari di cardiologia, a varie figure, tutti quanti alla fine dicono: “siamo umani anche noi, siamo persone anche noi”.
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«Il ruolo della formazione è fondamentale: nel momento in cui si viene formati come scienziati, come tecnici della scienza, però non si ha una formazione anche umana, dopo i risultati possono essere solo quelli.»
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«Questo non significa che debba passare il concetto per cui ognuno fa tutto come gli viene perché è umano, anzi, ci sono una formazione, un percorso, uno studio da fare sia su sé stessi sia sulle dinamiche di come funzioniamo e di come funziona la relazione.»
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«È una riflessione su di noi, è la consapevolezza, è il riconoscersi come umani e dire: “ok questa esperienza che cosa mi sta facendo vivere? che cosa mi sta facendo capire di me?”»
«Tornando al ruolo dei curanti, il fatto di avere a che fare con pazienti che sono particolarmente sofferenti e magari richiedenti e magari bisognosi, andrà a smuovere qualcosa dentro di loro.
Ci sono delle ragioni storiche per un certo distacco, perché a livello naturale, umano, è chiaro che noi reagiamo alle emozioni, ma a livello storico è stata inserita una credenza totalmente fuorviante a partire dal 1800 che invita ad “avere un certo grado di insensibilità e invulnerabilità nella professione”.»
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È l’evoluzione del pensiero illuminista, purtroppo, per cui da una parte c’è la scienza e dall’altra c’è l’emozione, l’umano. Infatti, da quel momento in poi, la filosofia e la scienza si sono separate, cosa che prima non era, anzi se andiamo indietro addirittura i primi psicologi erano scienziati e medici.
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«Adesso stiamo vivendo le conseguenze più estreme di questa suddivisione, anche se nello stesso tempo, fortunatamente, c’è anche una grande trasformazione, ci sono sempre più curanti consapevoli, che si stanno facendo più domande e vengono anche più supportati dagli studi scientifici di un certo tipo.
Poi si sceglie che curante si vuole essere, cioè se va bene essere meramente il tecnico, però stando anche bene così, oppure occorre iniziare a fare un percorso di autoconsapevolezza e di autoconoscenza.»
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È importante arrivare alla consapevolezza, anche da parte del personale curante, che la relazione consiste nel metterci anche la voce, nel senso che parlare e ascoltare soprattutto i pazienti non è solo qualcosa da demandare ai volontari che entrano in ospedale per accogliere o comunque per intrattenere, per creare sollievo nei pazienti, ma è anche qualcosa che può essere di grande aiuto nella professione medica.
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«È chiaro che il medico questo passo lo deve fare; poi ci sono gli infermieri, ci sono gli operatori sociosanitari – grandissime figure – che sono proprio a contatto con la pelle, hanno una professione importantissima e delicatissima e lì si crea una relazione davvero umana tra il paziente e l’operatore.»
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Alcune volte Nicole ha difficoltà a far comprendere le dinamiche relazionali che si creano all’interno dei reparti, perché si fa fatica a credere che il medico entri in stanza, dia la prognosi e neanche guardi negli occhi.
«Anche Umani si riferisce proprio ai curanti. La divulgazione è molto lato-paziente quindi pazienti che raccontano le loro esperienze di malasanità e mala-relazione.»
Nicole ha fatto queste ricerche mettendosi nei panni dei curanti, nel tentativo di dare voce alle parti più recondite, di cui non si parla neanche e soprattutto tra di loro. «È una delle categorie professionali con un’altissima percentuale di abuso di droghe, di alcol e anche di farmaci e con un altissimo tasso di suicidio.
È normale che ci sia anche la loro sofferenza emotiva, però non parlarne la aumenta ancora di più.»
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Ci vorrebbe una sensibilità maggiore e aumentata rispetto alle tematiche per i curanti e nelle professioni di cura.
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«La voce è fondamentale, fa tantissimo nella cura, soprattutto la voce calda e accogliente.»